Eliano Pessa tra le nuvole

Te n’eri già volato via, da qualche parte sulle tue montagne, quel giorno di due anni fa quando venni a trovarti in ospedale. Un’amica mi indicò la stanza, e con un groppo in gola entrai, temendo di pentirmi, ma non mi pentii – perché non eri lì. Fredda e lucida razionalità affermerebbe che la malattia ti aveva trasfigurato – perché sembravi un’altra persona – ma la realtà “vera” è che tu non eri lì. Me ne andai, strano a dirsi, rassicurato – eri da qualche parte nel mondo e questo mi confortava (lo ha fatto fino a pochi giorni fa) ma non eri in quel letto d’ospedale. Semplicemente, in modo piano ed ovvio, quel posto non t’apparteneva.

Perché tu eri proprio un’altra cosa. Ti ho conosciuto circa quindici anni fa, ero appena arrivato a Pavia e mi sorprese e suscitò immediata simpatia quel sorridente professore dall’aria assente e i capelli spettinati, occhiali grandi, fisico asciutto (o dovrei dire, ascetico?), lievemente curvo, segno inequivocabile dell’abitudine a trascorrere lunghe ore chino sui libri – certamente su formule ed equazioni, era evidente. E perennemente, che fosse estate o inverno, vestito nello stesso modo: come i professori d’una volta, camicia, giacca e cravatta, gli orli delle maniche con qualche traccia di gesso – ineffabile strumento di sapere con cui tracciavi geroglifici matematici inaccessibili agli studenti (ma eri buono come il pane, e gli studenti ti adoravano – ben lungi dall’incarnare lo stereotipo del matematico lunare e misantropo). Riguardo alla tua camicia-giacca-cravatta ti prendevo in giro, suggerendo che sotto quei due strati di tessuto non ci fosse la pelle come per gli esseri umani comuni, ma che fossero essi stessi la tua pelle, e che tu vivessi semplicemente con la tua cute di cotone e stoffa e naturalmente ci andassi a dormire (perché mettere uno strato di cotone in più come il pigiama? Sto benissimo così), e ridevo immaginandoti sotto le lenzuola sempre “in” giacca e cravatta, come una specie di supereroe della matematica e dell’astrazione.

Perché con te si poteva scherzare come si scherza tra ragazzi, e non ho visto mai, in tutti questi anni, altro atteggiamento in te se non una perfetta, completa umiltà. Nemmeno un atomo – “un quanto” forse avresti detto tu – di presunzione, un’altra cosa che non ti apparteneva, come quel letto d’ospedale. In te impressionava e meravigliava l’abissale discrepanza tra il tuo sapere – immenso ed articolato, e l’innata timidezza, pacatezza, tipica di chi teme di essere smentito (quando invece quasi sempre chi ne sapeva di più eri tu). Eliano non smettere mai di visitare la mia mente ed essermi di esempio, perché esattamente così dovrebbe essere uno scienziato: curioso, intelligente, severo con se stesso e con le proprie equazioni, ma umile ed onesto con i colleghi – ed eri buono, in quel modo semplice e piano e naturale, non perché si debba essere buoni ma perché era lo stato intrinseco della tua mente, su cui non aveva senso alcuno porsi domande. Anni fa lessi Primo Levi che raccontava commosso dell’amico Lorenzo Perrone, un muratore piemontese che lavorava ad Auschwitz e salvò la vita al chimico italiano. Levi scrisse che Lorenzo lo salvò non tanto e non solo perché gli portò di nascosto una gamella di zuppa ogni giorno per sei mesi (rischiando ogni volta la sua, di vita) ma perché gli ricordava costantemente che esistesse un modo giusto e buono di essere uomini, al di fuori di quell’orribile mondo di negazione in cui si era trovato precipitato. Ecco Eliano, io non ti ho conosciuto molto bene, ma quella era la mia impressione di te, e vorrei che tu continuassi a ricordarmi sempre qual è il modo giusto e buono di essere, e di fare il nostro mestiere.

 

Eliano sorride mentre mia figlia gli devasta le equazioni sulla lavagna

 

Sull’umiltà e sull’essere ancora, dopotutto, un ragazzo (nonostante camicia-giacca-cravatta intrinseche) racconto un episodio. Un giorno vidi risme di carta stampata tutta su un solo lato, e leggendone gli argomenti – fisica quantistica – non fu difficile inferire che si trattava di cose tue. Venni nel tuo studio e ti “sgridai” – tra il serio e il faceto, per non aver stampato fronte e retro. Tu ti scusasti a profusione, spiegando che eri abituato a prendere note sul retro del foglio, e che non eri mai riuscito ad abbandonare questa tua pessima abitudine. Eri sinceramente imbarazzato. Fu difficile convincerti che il mio commento era stato scherzoso, che si, era giusto stampare fronte-retro ove possibile ma che io lo avevo detto nel modo giocoso e goliardico che si usa tra amici – ma tu in quel momento eri un ragazzo sgridato dal suo professore.

Che assurdità, questo contrasto – io professore tuo! I paradossi suscitati dalla tua proverbiale umiltà. Qui nasce il mio peggior rimpianto: non essere stato tuo studente e non aver mai assistito – maledetto me – ad una tua lezione. L’universale simpatia – adorazione – che riscuotevi tra tutti i tuoi studenti, e il profluvio di aneddoti divertenti (esilarante un’imitazione della tua parlata, con il caratteristico accento laziale) mi avevano sempre incuriosito, ma non sono mai venuto ad una tua lezione, perché ti conoscevo abbastanza da pensare che forse – ridicolo a dirsi, ma penso di non essere andato lontano dal vero – ti saresti sentito imbarazzato a vedermi tra il pubblico.

Eliano, mi confortava sapere che tu ci fossi ancora. In modo strano ed assurdo, ma queste sono parole di affetto e tenerezza, non della razionalità che era il tuo mestiere – il fatto che tu, seppur in un letto d’ospedale fossi ancora tra noi mi dava pace ed una quieta, lontana sicurezza. Che peccato non aver parlato di più, non averti preso in giro di più, nel modo bonario che accettavi col tuo sorriso scanzonato, non averti frequentato, non aver saputo più cose di te. Quante cose matematiche avremmo discusso, quanti racconti tibetani ed esotici, quante lavagne e quanto gesso sulle maniche. Ma cosa posso fare? Immaginarti volare sulle tue crode chissà dove, ora che la tua densità è quella giusta perché tutto sommato di nuvole sei sempre stato fatto ed è lì che galleggiava la tua mente sotto i capelli arruffati e quel sorriso di anima generosa e mite.

 

Alessio Toraldo – 25 marzo 2020